Il problema dell’infiltrazione jihadista e islamista radicale nei Balcani occidentali è reale e pluriforme, in base al Paese di riferimento e alle relative caratteristiche istituzionali, politiche e socio-economiche. Non si tratta infatti di un fenomeno che può essere inteso come generalizzato, ma piuttosto legato a specifiche dinamiche. Il radicalismo di matrice islamista fa infatti breccia lì dove lo Stato è carente o assente, dove le condizioni socio-economiche (in particolare quelle dei giovani) sono gravose, senza dimenticare la storia del relativo Paese, che può in qualche modo contribuire alle modalità con le quali si sviluppa il fenomeno.
Nel caso dell’Albania, il fatto che l’eredità del regime comunista guidato da Enver Hoxha, che aveva portato all’annullamento della religione nel Paese e all’introduzione dell’ateismo di Stato (1967) come dottrina ufficiale, possa aver contribuito ad impoverire la fertilità del terreno nel quale l’islamismo radicale poteva progressivamente cercare di far breccia dopo la caduta del regime è ancora oggi oggetto di dibattito.
Nonostante alcune teorie secondo le quali l’ateismo di Stato avrebbe rafforzato, per reazione, il credo del popolo albanese, fin’ora l’unica effettiva conseguenza comprovata in Albania è la reciproca tolleranza e cooperazione tra le diverse comunità religiose in un paese a maggioranza musulmana, ma con relativa presenza cattolica, ortodossa e bektashi. Difficile invece sostenere che l’ateismo di Stato abbia contribuito a un incremento del numero di credenti in un paese dove il nazionalismo, la cosiddetta “albanesità”, ha la precedenza su etnia e religione e dove il tasso di matrimoni misti è particolarmente elevato. E’ possibile dunque ipotizzare che la notevole tolleranza interreligiosa sia in realtà risultato di un’impostazione che, tramite l’ateismo di Stato, ha portato a mettere in secondo piano l’aspetto religioso, visto come secondario rispetto all’appartenenza alla Nazione. In aggiunta, l’Albania non è mai stata teatro di conflitti religiosi sul proprio territorio.
L’islamismo radicale alimentato dall’estero
L’estremismo di stampo islamista presente in Albania è un problema importato dall’estero e ricollegabile a diverse fonti. Ci sono paesi del Golfo e organizzazioni caritatevoli che hanno tutto l’interesse a diffondere wahhabismo e salafismo, finanziando moschee, centri culturali, associazioni benefiche di stampo religioso, importando materiale dottrinario da distribuire e indottrinando imam.
Se da una parte la comunità islamica albanese (Kmsh) è molto attenta a individuare ed eventualmente respingere derive radicali, al punto che già nel 2015 chiese l’intervento delle Istituzioni per far fronte al problema, dall’altra è presente una realtà formata da predicatori radicali, attivi in centri islamici non ufficiali ma anche sul web, alcuni dei quali rientrati in Albania dopo periodi di studio in scuole islamiche del Medio Oriente. Questi predicatori di odio non solo si occupano di diffondere quell’ideologia salafita e wahhabita fondata sulla prevaricazione e l’intolleranza, ma invocano apertamente anche il jihad. Non caso, nel marzo del 2014, le forze di sicurezza albanesi smantellavano una delle più grosse reti di propagandisti e reclutatori per l’Isis attive nei Balcani occidentali (e la più importante d’Albania), con a capo proprio i due imam Genci Balla e Bujar Hysa.
Tra i personaggi collegati alla rete “Balla-Hysa” vi era anche Almir Daci, ex imam della moschea di Leshnica, apparso con il nome “Abu Bilqis Al-Albani” nel noto video sui Balcani rilasciato dall’Isis a giugno 2015 e dal titolo “Honor is Jihad”.
La zone prese di mira dai predicatori di odio sono prevalentemente quelle periferiche di Elbasan, Cerrik, Kavaja, Librazhd, Pogradec, Skutari ma anche la periferia di Tirana. I loro target sono in gran parte giovani individui in precarie condizioni sociali, culturali ed economiche.
Un ulteriore problema è poi l’infiltrazione economica e politica della Turchia di Erdogan, ideologicamente legata all’islamismo radicale dei Fratelli Musulmani, infiltrazione perpetrata tramite l’utilizzo del cosiddetto “soft power”, la capacità di persuadere, attrarre e cooptare, tramite mezzi quali la cultura e la politica. Un pericolo ben più serio perchè più difficile da individuare e da gestire. Un esempio? La grande moschea di Tirana (la più grande di tutti i Balcani), fatta costruire da Erdogan a due passi dal Parlamento albanese su una superficie di 32.000 metri quadrati. Ovviamente tutto ha un costo e in questo caso di tipo ideologico-politico. Non deve infatti stupire se i sermoni predicati all’interno di queste moschee siano gli stessi pronunciati dagli imam dei paesi d’origine, con contenuti che vanno oltre gli aspetti fideistico-dottrinari per sfociare nel politico. Un’arma potentissima nelle mani dei regimi.
Il jihadismo di ritorno e il contrasto al terrorismo
L’Albania ha “contribuito” alla causa jihadista in Siria e Iraq con circa 180-200 foreign fighters su una popolazione di 2.873 milioni ma sembra anche avere un buon controllo della situazione. Il “Country Reports on Terrorism” del Dipartimento di Stato americano per l’anno 2018 ha infatti messo in evidenza come l’Albania, nonostante la scarsità di risorse, abbia comunque ottenuto buoni risultati nel contrasto al jihadismo. La collaborazione tra la CTU albanese e le agenzie statunitensi nella lotta al terrorismo è attualmente ad elevati livelli; un ulteriore aspetto di rilievo è inoltre la modernizzazione del Personal Identification Secure Comparison and Evaluation System (Pisces) per proteggere le frontiere albanesi, oltre ai già elevati controlli presso gli scali marittimi ed aeroportuali.
Nel complesso, l’Albania appare in grado di gestire il pericolo derivante dal jihadismo legato al rientro di foreign fighters e alla radicalizzazione sul territorio; ciò è certamente il risultato della cooperazione con le agenzie europee e statunitensi, ma anche la presenza di un’efficiente sistema di intelligence interno, eredità del periodo comunista. Più problematica risulta invece la gestione della propaganda tramite web che colpisce non soltanto in Albania ma anche la diaspora (un problema tra l’altro su scala globale), propaganda che potrebbe influenzare anche jihadisti ritornati in patria, oltre che quelli latenti, mai partiti.
Il quartier generale dei Mujahideen del Popolo iraniano
Un’ulteriore problematica in suolo albanese è legata alla presenza del quartier generale dei Mujahideen del Popolo d’Iran (Mek), insediato a Manez (vicino Durazzo) dal 2016, dopo anni di attività in Iraq. Una presenza che ha creato non pochi grattacapi alle istituzioni di Tirana.
Il Mek nasceva nel 1963 con l’obiettivo di combattere il regime dello Shah e nel 1979 partecipava alla rivoluzione islamica guidata dall’Ayatollah Khomeini; l’ideologia divulgata (un incrocio di marxismo, femminismo e islamismo) si scontrava però con quella degli Ayatollah, veniva quindi messa al bando e i mujahideen trovavano rifugio nell’Iraq di Saddam Hussein.
Visto con molta diffidenza da Israele e mal sopportato da molti iraniani anti-Ayatollah, in precedenza il Mek era inserito nella lista nera da Unione Europea, Gran Bretagna, Usa e Canada, per poi venire “sdoganato” tra il 2008 e il 2012, grazie anche all’ intervento dell’allora Segretario di Stato, Hillary Clinton.
Se da una parte Washington vede nel Mek “la principale forza d’opposizione promotrice di democrazia e laicità in Iran”, dall’altra, Teheran lo identifica come “organizzazione terroristica responsabile di attentati ed atti di violenza politica”. Se il Mek sia promotore di “democrazia e libertà” o meno, è difficile dirlo; certo è che il connubio tra marxismo-leninismo ed islamismo predicato dal gruppo non è certo una garanzia, così come non lo è la struttura che mostra elementi tipici di una setta, come illustrato recentemente dalla Bbc.
Vale la pena ponderare sull’utilità della presenza del Mek in territorio albanese, presenza scomoda, forse inopportuna, che rischia di creare più problemi che vantaggi in un contesto estremamente delicato come quello balcanico.
INSIDE OVER , Giovanni Giacalone